Ecco il ricordo di un’anziana contadina, che ha voluto gentilmente raccontare a Vivere la Toscana l’antico rito dell’uccisione del maiale secondo la tradizione maremmana. Per ringraziare il Signore del “ben di Dio” che aveva offerto alla sua famiglia, non dimenticava mai di offrire la carne arrostita di maiale anche a chi non poteva permettersela per festeggiare insieme il Giovedì Grasso, in attesa dell’arrivo della Quaresima.
“Il 15 di novembre c’era a Roccalbegna una grande fiera, soprattutto di bestiame. Allo “scarico”, per i più giovani nel luogo dove ora sorgono i giardini, le bestie arrivavano guidate attraverso la via Sasso Grosso e la discesa delle Torricelle. La sera, al ritorno, ripercorrendo i soliti luoghi, lasciavano sul lastricato tracce evidenti del loro passaggio. Scampanii, muggiti, belati, ragli, grufolii si univano al frastuono delle contrattazioni, allo stridio dei fischietti che i bimbi compravano alle bancarelle, ai richiami degli ambulanti, cocciai, cenciai, seggiolai, venditori di pannina. Allora si compravano i “lattonzoli”, piccoli, rosei maialini, con la coda arricciolata. Si sceglievano i più promettenti, con l’occhio attento alla quantità di carne che avrebbero messo su durante l’anno con i beveroni di semola, di orzo macinato, di granturco, di ghiande, insieme a tutto ciò che di commestibile per loro avanzava nelle mense: bucce, tozzi di pane secco, frutta bacata. Non si guardavano con affetto; fin dall’inizio della convivenza, anche se rosei e teneri, erano solamente prosciutti, salsicce, buristi, insomma tutto quel ben di Dio, che avrebbe costituito il companatico, usato con molta parsimonia, per tutto l’anno. Oddio, qualcuno li faceva anche ballare; due coniugi , la sera, andavano sempre ubriachi fradici nella stalla: il marito portava a bere al fontanile il mulo, poi moglie e marito, prendendo ciascuno una zampa anteriore del maiale, e cantando “nzun flin flin … nzun flin flin… ”, lo facevano ballare. Dicembre e gennaio dell’anno successivo erano i mesi del loro supplizio, perché di supplizio vero e proprio si trattava, a pensarci oggi che abbiamo meno fame. Quando venivano portati alla morte, inspiegabilmente, sembrava che la presagissero, perché cominciavano a emettere lunghe e acute strida. L’aria di gelo echeggiava della loro disperazione: si sentiva dovunque ed entrava cupa dentro. Tanti andavano ad ammazzare il maiale al mulino da capo, sul muretto prima che ci fosse il cancello. Il norcino, poteva essere Gigi Bellucci detto “Diavolino” o Gigi Tollapi o Vittorio Bindi il “Lupaio”, legava le zampe al maiale e sul muretto gl’infilava il coltello nella giugulare: sotto le donne raccoglievano il sangue in un recipiente e, aggiungendo un pugno di sale, si affrettavano a rimescolarlo per non farlo coagulare. Poi, aiutato dagli uomini di casa, il norcino lo pelava con l’acqua bollente, lo raschiava, lo appendeva per le zampe posteriori e lo squartava. Si toglievano subito le interiota, milza, fegato, polmoni, cuore che servivano rispettivamente per i fegatelli e per l’ammazzafegato. Le donne intanto andavano al fiume (non c’era l’acqua corrente nelle case) a lavare le budella deputate a contenere la carne una volta tritata e mescolata al sale e alle spezie. Bisognava “digrassarle” nell’acqua corrente dell’Albegna, senza romperle. L’operazione richiedeva tempo e attenzione e l’acqua era gelida, come tutte le acque che scendono d’inverno dalla montagna. Quando tornavano a casa avevano i “diavolini” alle mani e a lungo le dovevano tenere sotto le ascelle per riscaldarle lentamente. Ma non era finita: bisognava rivoltare le budelline, raschiarle delicatamente con la costola del coltello, lasciarle a bagno in acqua e cambiarla spesso. Quando la carne era asciutta, dopo ventiquattro ore, il norcino spezzava il maiale e accantonava quei pezzi come le spalle, i cosci, la ventresca, il capocollo, l’arista che avevano un diverso destino, Triturava le altri parti, salava, pepava, aggiungeva gli aromi necessari, mescolava il tutto come se facesse il pane e poi insaccava nelle budelline, in quelle più sottile la salsiccia da mangiare presto, in quelle spesse, sacciformi, la salciccia per l’estate. Un insaccato, chiamato “zia”, che veniva mangiato in agosto, era particolarmente profumato e appetitoso per la lunga stagionatura. Occorrevano più giorni per sistemare tutto: una volta andato via il norcino, alle donne rimaneva il compito di fare i fegatelli, i buristi con il sangue e con i pezzettini di grasso, lo strutto, la soppressata con le cotenne, la testa e le zampe.
Conclusi i lavori sgrassato tutto con la soda e l’acqua bollente, la casa riprendeva il suo aspetto consueto: ma, se alzavamo gli occhi alle canne appese al soffitto della cucina, a cui erano arrotolate le salsicce, o andavamo in cantina dove gemevano sotto il sale i prosciutti e i loro compagni e dove erano conservati al fresco i buristi, la soppressata e i fegatelli e lo strutto bianco come neve, ci sentivamo consolati. Non tutte le famiglie riuscivano a mettete insieme questo ben di Dio: erano molte le case vuote di companatico e con il fuoco spento.
Così per giovedì grasso durante il carnevale i poveri bussavano alle porte dei più fortunati. Auguravano “buon giovedì grasso” “buon carnevale” e ricevevano un pezzetto di carne grassa, un tocchetto di salsiccia, che infilzavano in uno spiedo. Tornati a casa con questo spiedo tenuto ritto come una candela, potevano anche loro fare il Carnevale e mangiare un po’ di carne.”